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Qui, il vantaggio di sentirsi in una terra non contaminata: idea che ha pure il suo fascino sugli uomini costretti nella loro terra a servirsi del tram quattro volte al giorno.
Qui sei un uomo, ti accorgi cosa significa essere un uomo, un erede del vincitore del dinosauro.
Pensi, ti muovi, uccidi, mangi l’animale che un’ora prima hai sorpreso vivo, fai un breve segno e sei obbedito.
Passi inerme e la natura stessa ti teme.
Tutto è chiaro, e non hai altri spettatori che te stesso.
La vanità ne esce lusingata.

E. FLAIANO, Tempo di uccidere (1947)

Colonia per maschi

Prefazione

di Luisa Passerini

La stretta connessione tra colonialismo e maschilità è segnalata fin dall’Ottocento, in corrispondenza con il tema della crisi del maschile. Questo tema era diffuso in tutta l’Europa, insieme col suo correlato di una possibile rigenerazione maschile attraverso la guerra e la conquista territoriale. Per l’Italia il nesso tra capacità coloniale e capacità virile si coniuga con quello dell’immaturità degli italiani, bisognosi di un’educazione che li porti a diventare veri uomini. Nel primo capitolo di questo libro Giulietta Stefani riporta una bella citazione di un allievo di Francesco De Sanctis che alla fine del secolo XIX sosteneva l’inscindibilità del rapporto tra “virilità nazionale e colonie italiane”: a suo parere, l’Italia avrebbe potuto acquistare piena coscienza di sé solo fondando una colonia, come sanno fare le nazioni “adulte e consapevoli”, e contemporaneamente dando un’educazione virile alla sua gioventù.

Introduzione

 

Quella degli italiani che combatterono o lavorarono nelle colonie africane del fascismo è una storia poco e mal conosciuta: spesso trasfigurata nell’immagine di un colonialismo marginale, bonario e benefattore, riassunto dallo stereotipo degli “italiani, brava gente”, oppure ridotta alla denuncia – sacrosanta – dei crimini e degli abusi compiuti dai nostri connazionali nelle terre colonizzate. Ma la realtà degli italiani in Africa Orientale fu anche molto altro e, soprattutto, molto più complessa di quanto queste immagini descrivano. Questo libro vuole essere un contributo ad ampliare e arricchire le prospettive di conoscenza e di ricerca sul colonialismo così come vissuto dai militari e dai civili italiani in Etiopia negli anni Trenta, tracciandone un quadro più articolato e, come vedremo, controverso. In particolare, attraverso l’analisi del discorso coloniale coevo e dei percorsi della memoria personale, queste pagine indagheranno il significato del colonialismo per gli italiani in termini di mascolinità, cioè di modelli, d’identità, di esperienze e di rappresentazioni maschili.

CAPITOLO PRIMO

Maschi in colonia

La conquista africana come terapia maschile

La guerra coloniale all’Etiopia fu anche il mezzo catalizzatore in cui il fascismo cercò di convogliare le ansie e le aspirazioni di rigenerazione maschile degli italiani, attribuendo all’Africa il ruolo di spazio di soluzione della crisi identitaria e di espressione della piena mascolinità. Ma di quale crisi si trattava? E in che modo l’impresa coloniale avrebbe potuto servire a rinvigorire la mascolinità degli italiani? Per rispondere a queste domande è necessario fare un passo indietro e allargare la nostra prospettiva al di là dei confini italiani. Il tema della crisi o degenerazione della mascolinità era infatti argomento diffuso in gran parte dell’Europa già dalla fine dell’Ottocento. Fino a quel periodo, come scrive George Mosse, lo stereotipo normativo maschile moderno era stato invece “straordinariamente costante” e dalla metà del Settecento gli uomini avevano cercato di “conformarsi al modello irrobustendo il corpo, affrontando la prova della guerra, difendendo l’onore e forgiando il proprio carattere”.

CAPITOLO SECONDO 

Sogni d’Africa

L’Africa come paradiso dei sensi

Già negli anni dei primi contatti oltremare e poi della prima guerra d’Africa (1885-1896), il continente africano era rappresentato come un paradiso dei sensi a portata di mano dei maschi italiani. Si credeva infatti che i costumi sessuali degli africani, “razza” inferiore e selvaggia, fossero più rilassati e disinibiti di quelli europei. Le donne nere, in particolare, erano ritenute disponibili a soddisfare tutte le richieste sessuali maschili, in quanto esseri dominati dalle passioni e incapaci di controllare i propri istinti. Questa immagine della colonia come paradiso sessuale svolgeva una doppia funzione. Da un lato, l’affermazione della natura selvaggia della razza nera, schiava delle pulsioni e sostanzialmente priva di raziocinio, giustificava la sottomissione e lo sfruttamento delle popolazioni indigene. Dall’altro, l’idea di uno spazio dove poter dare libero sfogo agli istinti sessuali era motivo di curiosità e attrazione nei confronti dell’Africa da parte di molti italiani.

CAPITOLO TERZO

Relazioni pericolose

“Il mio piccolo «impiastrino» (così chiamo il mio negretto piccolino) mi si attacca un giorno più dell’altro, figurati che adesso mangia con me a tavola e che bel garbo ha nel tenere il cucchiaio, e come si pulisce la bocca prima di accostarsi il bicchiere […]. Dorme con me e sai dove?… al posto dello scendiletto metto quattro o cinque coperte a doppio e lui sta meglio lì che in paradiso. La mattina quando mi alzo lui, se mi sente, si volta, mi dà il buon giorno fra il sonno e si volta da un’altra parte; ma io lo so perché lo fa: perché sa che lo prendo e lo metto sulla mia branda: allora è il colmo per lui. Sai che sono stato due giorni senza vederlo?…Siccome tutti gli dicevano che io andavo in Italia, lui non ci credeva e diceva: «Il Maresciallo porta anche me in Italia»: ma quando ha visto il giorno che sono partiti i musicanti che io al porto gli ho baciati e che sono andato in una barca ad accompagnarli fino al piroscafo; si è messo a piangere, disperarsi, urlare […]. Come farò a lasciarlo quando verrò a casa? […] se non avessi la musica ed il mio piccolo negretto (il cioccolatino) […]  non mi sentirei di andare avanti. Nei momenti che più mi assale la nostalgia dell’Italia, mi faccio abbracciare da quelle due braccine nere accosto quel visino bello nero al mio e mi sento tutto intenerito e buono.

EPILOGO

“Tempo di uccidere”

Sullo sfondo della guerra di conquista coloniale del 1935-1936 un tenente italiano vive un’esperienza di profonda crisi personale in Etiopia: questo il tema di fondo del primo dei romanzi “coloniali” del secondo dopoguerra, Tempo di uccidere di Ennio Flaiano. Un testo estremamente originale e denso di significato, ispirato al soggiorno africano dell’autore e che, in chiusura di questo lavoro, è utile per ripercorrere molte delle tematiche affrontate finora e qui trasfigurate nella finzione letteraria. […] L’anonimo tenente di Tempo di uccidere si presenta come una sorta di antieroe coloniale, parodia del soldato modello descritto dalla propaganda, come abbiamo visto. Una delle caratteristiche fondanti la sua identità maschile è infatti l’inettitudine: il tenente è perennemente incerto su cosa pensare e su come agire, in balìa dei suoi errori e delle sue debolezze, dei suoi umori altalenanti e delle sue paure, “continuamente in preda a dubbi amletici”.

Tempo di uccidere Flaiano

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giulietta.stefani@gmail.com